DaD: tra inadeguatezza e positività
di Maria Pia Dell'Erba, docente di materie letterarie

Lo smart working dell’insegnante ha già una sua sigla: DaD, Didattica a Distanza. Un altro acronimo che si va ad aggiungere al vocabolario di termini occulti che fanno parte della burocrazia kafkiana della quotidianità della scuola. Nomi arcani che solo gli iniziati possono decifrare e utilizzare con scioltezza e che compongono una neolingua che si arricchisce ogni anno di neologismi dal suono cacofonico. Ci siamo abituati al POF che è diventato PTOF, all’ASL che è diventata PCTO, parliamo con disinvoltura di PON, da non confondere con POR, di RAV, di AD e di tanto altro. 
Uno dei pochi aspetti positivi della Buona Scuola renziana, l’unico a mio avviso, è stato lo sforzo, fin qui per lo più vano, di promuovere l’aggiornamento in massa della classe docente sullo sviluppo delle competenze digitali. L’emergenza ha colto impreparati i più: e non parlo solo dei docenti. Perché i nativi digitali si sono scoperti impacciati e inadeguati, pure loro incapaci di muoversi con sicurezza tra piattaforme e videolezioni. Ma se l’inadeguatezza delle competenze digitali tutto sommato è semplice da sanare, basta volerlo, perché è sufficiente seguire i canali di generosi youtuber che in pochi minuti colmano baratri di ignoranza tecnologica con pillole di saggezza digitale, invece la DaD ha messo in luce inadeguatezze ben più importanti, che affondano nell’organizzazione profondamente antidemocratica della nostra società. Le scuole e gli alunni più disagiati ne pagano le conseguenze: il divario economico e sociale di scuole e famiglie non è più un dato da statistica, adesso si mostra in tutta la sua drammaticità soprattutto nelle scuole elementari di quartiere, nei bambini che stanno imparando a leggere e scrivere e che di questo momento storico riporteranno cicatrici culturali profonde che solo la loro volontà di rivalsa potrà sanare. Non è colpa loro, non è colpa della loro istituzione scolastica di appartenenza, non è colpa dei loro insegnanti. E’ colpa di tutti noi che abbiamo contribuito a costruire questa società così come è: antidemocratica, elitaria, egoista.
Ma se possiamo trovare un insegnamento veramente utile in questa situazione di emergenza è constatare che l’inadeguatezza nella gestione dei nostri rapporti a distanza è incolmabile.  Non ci sono video tutorial esaustivi, non c’è digitale che ci educhi, non ci sono piattaforme che possano sostituire il piacere di incontrarsi, parlarsi, toccarsi. Ed è cosa buona e giusta. Perché lo sapevamo, ma l’abbiamo verificato in questi giorni, che siamo necessari gli uni agli altri, che tra insegnanti e alunni è importante interagire in presenza, non solo per trasmetterci conoscenze e competenze: magari per litigare in santa pace, per amarci e odiarci a giorni alterni, per vivere insieme.
Nelle azioni partorite dal disagio dell’emergenza di questi giorni, il Miur ha dimostrato saggezza eliminando Invalsi e PCTO. Odiosi turpiloqui di un vocabolario da burocrati da tavolino che rimandano a progettualità inefficaci e antidemocratiche, che riducono le une, le prove Invalsi, a selezionare eccellenze da statistica, gli altri, i PCTO, ad asservire la Scuola alle divinità del Profitto e dell’Economia.
Adesso è il momento di fare un altro passo avanti per i nostri ragazzi: vengano eliminati i test di accesso all’università, strumenti satanici di selezione antidemocratica, lesivi di sacrosante libertà personali. I giovani in questo momento sono privati dei loro affetti, delle loro passioni, della loro quotidianità; in cambio avranno un mondo da ricostruire, un’economia da ricomporre, dei rapporti sociali da reinventare. Piuttosto vengano stimolate e favorite le loro progettualità; o meglio, i loro sogni e i loro desideri. Per il resto non rimane che da rimboccarci le maniche e metterci a lavoro. 







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