-STORIE DI DONNE

MILLE SPLENDIDI SOLI 



“Nessuna delle donne che condividevano la cella con Mariam stava scontando la pena per un crimine violento; erano tutte incarcerate per essere fuggite da casa, un reato comune. Di conseguenza Mariam aveva acquisito una certa notorietà tra le sue compagne, divenendo una sorta di celebrità. Le donne la guardavano con reverenza, quasi intimorite. Le offrivano la loro coperta. Facevano a gara per condividere con lei il cibo. La più devota era Naghma, che la abbracciava tutto il tempo e la seguiva dovunque andasse. Era il tipo di persona che si divertiva a dispensare notizie di disgrazie, sue o altrui. Disse che suo padre l’aveva promessa a un sarto di trent’anni più vecchio di lei. «Puzza come goh e ha meno denti che dita» disse Naghma del sarto. Aveva tentato di fuggire a Gardez con un ragazzo di cui era innamorata, il figlio del mullah locale. Non erano riusciti neppure a uscire da Kabul. Quando erano stati catturati e riportati a casa, il figlio del mullah era stato fustigato prima che si pentisse e dicesse che Naghma l’aveva sedotto con il suo fascino femminile. Aveva gettato un incantesimo su di lui, disse. Promise che si sarebbe dedicato nuovamente allo studio del Corano. Il figlio del mullah era stato liberato. Naghma era stata condannata a cinque anni di carcere. Tanto valeva che stesse in prigione, aveva detto. Suo padre aveva giurato che il giorno in cui fosse stata messa in libertà l’avrebbe sgozzata. Ascoltando il racconto di Naghma, a Mariam tornarono in mente il fioco scintillio di stelle algide e, sopra i monti Safìd-koh, le nubi rosa sfilacciate di un mattino lontano, quando Nana le aveva detto: Come l’ago della bussola segna il nord, così il dito accusatore dell’uomo trova sempre una donna cui dare la colpa. Sempre. Ricordalo, Mariam. “ Il processo di Mariam si era tenuto la settimana prima. Non c’era stata pubblica udienza, né avvocato difensore, né possibilità dì controinterrogare i testimoni, né di fare appello. Dei tre giudici quello nel mezzo, un talebano dall’aria malaticcia, era il leader. «Confessi, hamshira?» le aveva chiesto di nuovo con voce stanca. «Sì» aveva risposto Mariam. L’uomo aveva annuito. O forse no. Era difficile a dirsi, perché era scosso da un violento tremore alle mani e alla testa che ricordava a Mariam il tremito del Mullah Faizullah. Mariam aveva trovato disarmante il comportamento del talebano. Quando parlava, nelle sue parole c’era un non so che di scaltro e tenero allo stesso tempo. Aveva un sorriso paziente. Non la guardava con disprezzo. Non le si rivolgeva con arroganza accusatoria, ma con un sommesso tono di scusa. «Capisci fino in fondo quello che stai dicendo?» le aveva chiesto il talebano dalla faccia ossuta alla destra del giudice. Era il più giovane dei tre. Parlava in fretta, con una sicurezza arrogante ed enfatica. Si era irritato perché Mariam non sapeva parlare pashtu, e Mariam ebbe l’impressione che appartenesse alla genia di giovani talebani aggressivi che godevano della propria autorità, vedevano reati dovunque e ritenevano loro diritto di nascita emettere giudizi. «Sì, capisco» aveva detto Mariam. «Dio ci ha fatto in modo diverso,» aveva spiegato il giovane talebano «voi donne e noi uomini. Il nostro cervello è diverso. Voi non siete in grado di pensare come noi. Medici occidentali l’hanno dimostrato scientificamente. Ecco perché richiediamo solo un testimone maschio, ma due testimoni femmine.» «Confesso ciò che ho fatto, fratello» aveva ripetuto Mariam. «Ma se non l’avessi fatto, lui l’avrebbe uccisa, La stava strangolando.» «Questo lo dici tu. Ma le donne giurano sempre su qualsiasi cosa.» «È la verità.» «Hai dei testimoni, oltre alla tua ambagh?» «No» aveva risposto Mariam. «Bene, allora.» Aveva sollevato le mani in aria con un risolino sarcastico. Poi aveva parlato il talebano dall’aria sofferente.
«Ti credo quando dici che tuo marito aveva un brutto carattere» aveva ripreso fissando Mariam da dietro gli occhiali, con uno sguardo severo e compassionevole allo stesso tempo. «Ma non posso che sentirmi turbato dalla brutalità del tuo gesto, hamshira. Sono turbato da quello che hai fatto, sono turbato dal fatto che mentre compivi il tuo crimine il bambino piangeva al piano di sopra, reclamando il padre. Sono stanco e sto per morire, ma voglio essere misericordioso. Voglio perdonarti. Ma quando Dio mi chiamerà e mi dirà: “Non spettava a te perdonare, Mullah”, che cosa Gli risponderò io?» I suoi compagni avevano annuito, guardandolo con ammirazione. «Qualcosa mi dice che tu non sei una donna malvagia, hamshira. Ma l’atto che hai compiuto è malvagio. E devi pagare per ciò che hai fatto. La sharia è rigorosa in merito. Affermo che è mio dovere mandarti dove presto ti raggiungerò io stesso. Capisci, hamshira?» Mariam aveva chinato lo sguardo sulle mani, dicendo che capiva. «Che Allah ti perdoni.» (…) Mentre veniva condotta allo stadio Ghazi, Mariam sobbalzava nel cassone del camioncino, che sterzava all’improvviso per evitare le buche, mentre le ruote facevano schizzare sassi in tutte le direzioni. Quegli scossoni le facevano male all’osso sacro. Di fronte a lei sedeva un giovane talebano armato, che la osservava. Mariam si chiedeva se sarebbe toccato a lui, a quel giovane gentile, con gli occhi infossati e il viso leggermente appuntito, con l’unghia dell’indice nera che tamburellava sulla fiancata del pick-up. «Hai fame, madre?» le chiese. Mariam scosse il capo. «Ho un biscotto. È buono. Te lo do se hai fame. Mi fa piacere.» «No. Tashakor, fratello.» Annuì e la guardò con benevolenza. «Hai paura?» Un nodo le strinse la gola. Con voce tremante Mariam gli disse la verità. «Sì. Ho molta paura.» «Ho una foto di mio padre» le disse. «Io non lo ricordo. So soltanto che riparava biciclette. Non ricordo il suo passo, capisci, la sua risata o il suono della sua voce.» Allontanò per un attimo lo sguardo, poi tornò a guardare Mariam. «Mia madre diceva che era l’uomo più coraggioso che avesse mai conosciuto. Un leone, erano le sue parole. Ma mi ha detto che il mattino in cui fu prelevato dai comunisti piangeva come un bambino. Te lo dico perché tu sappia che è normale aver paura. Non devi vergognarti, madre.» Per la prima volta, quel giorno, Mariam versò qualche lacrima. Migliaia di occhi si posarono su dì lei. Sulle gradinate gremite, la folla allungava il collo per vedere meglio. Alcuni pregavano. Altri facevano schioccare la lingua. Quando Mariam, con l’aiuto del talebano, scese dal camioncino, un lungo mormorio trascorse per lo stadio. A Mariam parve di vedere gli spettatori scuotere la testa quando l’altoparlante annunciò il crimine per cui veniva condannata. Ma non alzò gli occhi per verificare se la scuotevano con disapprovazione o con misericordia, con biasimo o con clemenza. Mariam non volle vedere nulla. Nel corso della mattinata era stata presa dal timore di rendersi ridicola, di mostrarsi lacrimevole e implorante. Aveva temuto che avrebbe gridato o vomitato o che, addirittura, si sarebbe bagnata; che negli ultimi minuti sarebbe stata tradita da un istinto animale di sopravvivenza o dalla miseria del corpo. Ma quando la fecero scendere dal camioncino, le sue gambe non cedettero. Le sue braccia non frustarono l’aria. Non dovettero trascinarla. E quando si sentì vacillare pensò a Zalmai, che lei aveva privato dell’amore della sua vita, i cui giorni sarebbero stati forgiati dal dolore per la sparizione del padre. E allora, Mariam avanzò senza cedimenti, camminò senza protestare. Si avvicinò un uomo armato, che le ordinò di andare verso il palo sud della porta. Mariam sentiva che la folla si eccitava pregustando lo spettacolo. Non alzò lo sguardo. Tenne gli occhi fissi a terra, sulla propria ombra, e sull’ombra del boia che seguiva la sua. Mariam sapeva che la vita non era stata buona con lei, anche se le aveva concesso alcuni momenti di bellezza. Ma mentre percorreva gli ultimi venti passi, non poté fare a meno di desiderare di vivere ancora. (…) Quando fu vicino al palo della porta, l’uomo dietro di lei le ordinò di fermarsi. Mariam obbedì. Attraverso la griglia del burqa vide l’ombra delle braccia dell’uomo alzare l’ombra del suo kalashnikov. Questi furono i desideri di Mariam in quei suoi ultimi momenti. Tuttavia, quando chiuse
gli occhi, non fu invasa dal rimpianto, ma piuttosto da una sensazione di grande pace. Pensò al suo ingresso in questo mondo, figlia harami di una povera ragazza di paese, una cosa indesiderata, un malaugurato, increscioso incidente, un’erbaccia. Eppure lo lasciava dopo essere stata un’amica, una compagna, una donna che si era presa cura degli altri. Una madre. Una persona di valore, finalmente. No. Non era poi tanto male che dovesse morire in quel modo, pensò Mariam. Era la fine legittima di una vita che aveva avuto un inizio illegittimo. Mariam mormorò sottovoce un versetto del Corano, il suo ultimo pensiero. Egli ha creato i cieli e la terra con Verità d’intento. Egli arrotola la notte sul giorno e arrotola il giorno sulla notte e ha soggiogato il sole e la luna e ciascuno corre verso la meta prescritta; non è Egli dunque il Possente Indulgente? «Inginocchiati» disse il talebano. O Signore mio! Perdonami e abbi misericordia, perché tu sei il migliore tra i misericordiosi. «Inginocchiati, hamshira. E guarda a terra.» Per l’ultima volta, Mariam fece come le veniva ordinato.


Entrambi i brani presentati sono tratti dal libro “Mille splendidi soli” di Khaled Hosseini. IL romanzo parla di Mariam e Laila, due donne profondamente diverse, i cui destini si intrecceranno a causa della guerra, due donne afghane cedute come spose ad un uomo burbero e violento, educate a sopportare ogni sopruso, ma che attraverso l’amore reciproco e verso i figli sono state in grado di mettere fine al loro piccolo inferno attraverso un gesto decisamente forte ed estremo, ovvero l’uccisone del marito. Fu Mariam, la più grande delle due ad ucciderlo, ma a differenza di come viene presentato dai talebani che la giudicheranno, il suo non fu un crimine, colpì l’uomo alla nuca nel tentativo di salvare Laila dalla brutale aggressività del marito che la stava strangolando. Quello di Mariam nei confronti di Laila è un atto d’amore incondizionato, ha dato la sua vita pur di dare un futuro a Laila e ai loro figli, e la sua grande dignità, come si legge dall’estratto, non si piegherà nemmeno sotto il peso delle pietre che la porteranno alla morte. Questo libro lo consiglio a tutte le donne. A tutte quelle donne che ogni giorno combatto affinché i loro diritti vengano riconosciuti, che ricevono uno stipendio non adeguato solo perché sono nate come “il sesso debole”, che sono state “invitate” a dimettersi perché in gestazione, che non sono libere di amare chi vogliono, ma costrette a sposarsi con uno sconosciuto scelto dalla famiglia ancor prima della loro nascita. A tutte quelle donne che non sono state protette, neanche quando, alla prima violenza, sono andate a fare denuncia. A tutte le donne che brillano con l'incontenibile splendore di mille soli.
Emanuela Giudice 5B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania


VOLEVO I PANTALONI 


Che crudeltà! Essere Donna e desiderare di VOLERE I PANTALONI Volevo i pantaloni è il primo romanzo di Lara Cardella, pubblicato nel 1989, quando l'autrice aveva solo 19 anni. Il romanzo, parzialmente autobiografico, racconta la situazione di un'adolescente costretta nelle restrizioni mentali e culturali della Sicilia di quegli anni. Il romanzo ottenne un inaspettato successo, diventando un vero e proprio fenomeno di costume, arrivando ad essere tradotto in diversi paesi europei ed extraeuropei. Anna è una ragazza siciliana, che frequenta il liceo classico e soffre per una situazione di disagio causata dal maschilismo e dall'ottusità della famiglia e della società retrograda in cui vive. Deve attenersi a regole sociali secondo lei ingiuste ed evitare comportamenti considerati
sconvenienti per una ragazza, come il divieto di truccarsi e indossare minigonne. Diventa amica di una compagna di scuola, che desidera emulare perché più libera ed emancipata; va di nascosto a una sua festa dove conosce Nicola, un ragazzo che le piace e con il quale inizia una relazione. Il segreto non rimane tale a lungo: viene scoperta dalla famiglia e, per punizione, segregata in casa dai genitori. Il comportamento di Anna diviene pubblico grazie ai pettegolezzi del paese e diviene oggetto di scherno e di vergogna al punto che la ragazza viene ritirata da scuola e mandata a casa di una zia. Quando quest'ultima lascia il marito, Anna rimane sola in casa con lo zio che tenta di violentarla. Tuttavia riesce a fuggire nella notte e trova la forza per denunciarlo. Tornata con i genitori accetta un matrimonio riparatore con Nicola e, una volta incinta, si ripromette di non far vivere alla bambina le stesse umiliazioni, educandola con una mentalità aperta e progressista. Oggi, a oltre trent’anni dalla sua iniziale diffusione, rimane un romanzo di formazione. Nonostante il titolo, che pare contenere in sé un’aria scanzonata, il contenuto del libro è di quelli importanti, in quanto offre uno spaccato di una realtà ancorata al passato che penalizza la donna in ogni sua manifestazione. “Quando ripresi coscienza, capii che la mia vita scolastica si era conclusa e che il mio primo sogno si stava realizzando: ero reclusa…” La problematica affrontata nel racconto, che riguarda la condizione femminile, è raccontata con una vena di leggera ironia, ma al contempo fotografa una realtà sociale molto antiquata, se non addirittura drammatica: quella che si dischiude su di un paese della Sicilia, a cavallo degli anni ‘60 e ‘70 del Novecento. “Ogni giorno era una violenza in più che la mia mente subiva, e arrivai al punto di desiderare davvero un marito per non dover più sopportare i silenzi di mio padre e i pianti di mia madre…” Annetta, la protagonista del romanzo, vive un’urgenza che la spinge a voler sfuggire dalla situazione di arretratezza in cui è costretta a vivere, non solo perché appartenente a una famiglia di origini e condizioni economiche modeste, ma soprattutto per la sua appartenenza al genere femminile. La ragazza avrebbe desiderato essere un maschio, per non dover sottostare a regole e soprusi che minano la sua giovane autostima, da parte dei suoi genitori come dei familiari tutti che, introiettati in una mentalità pressoché medioevale, la costringono ad usi e abitudini d’altri tempi. Annetta vorrebbe trovare una via d’uscita da una situazione di povertà anche delle piccole cose, ma per lei è difficile, se non addirittura impossibile, affrancarsi dalla difficile condizione nella quale è imprigionata. Perché le sue giornate si consumano in un’abitazione pregna di un’atmosfera squallida, soprattutto mentale, e si rammarica di non essere come le sue compagne che affrontano con una sorta di disinvoltura, fatta di trucchi e belletti, la realtà antiquata di paese. Ma, per la giovane protagonista di Volevo i pantaloni, almeno fino a un certo punto della storia, gli espedienti in uso alle sue compagne non sono cose importanti. “Rimasi tutta la notte a pensare a cosa fare: volevo fuggire, avvisare la polizia, farmi proteggere da qualcuno, uccidermi… Qualsiasi cosa, pur di non andare da lui, ma mio padre si era posto davanti alle tendine per impedirmi qualsiasi tentativo di sfuggire alla sua volontà…” Quando poi avrà l’occasione di incontrare un ragazzo che sollecita i suoi sensi, in casa si solleverà allora un putiferio, tanto da defraudarla del suo ruolo di figlia. Ripudiata, come fosse un pacco e non una giovane donna con pretese del tutto legittime, il padre decide di inviarla presso una zia, una delle poche persone solidali con cui Annetta abbia intrecciato un legame sincero. La zia Vannina è comprensiva, forse perché anche lei vittima di un clima d’ignoranza triste e obsoleto. Con un passato di dolore alle spalle, a causa di un matrimonio che non ha mantenuto quello che in origine le aveva promesso, e vittima di un uomo che trova rifugio alle proprie miserie in una bottiglia, anziché in seno alla propria famiglia. Quindi, un clima di violenza, soprattutto psicologica, rancore e altri sentimenti oscuri e sopiti e negativi sono lo sfondo di Volevo i pantaloni. Che è poi la storia di Annetta la quale, per ribellarsi a una condizione di sottomissione, vorrebbe indossare i pantaloni, o
trovare un altro escamotage per emanciparsi da un presente di dolore e rivendicare diritti e dignità al pari di quella degli uomini. Consapevole delle brutture da cui è circondata, e che tocca ogni giorno con mano, Annetta vorrebbe avere un’alternativa di vita. Ma nulla sembra andarle in soccorso, se non la zia Vannina, figura controversa ma ricca di una dolente umanità, che nulla può fare, se non darle ospitalità nella sua misera abitazione. “Camminammo per circa un quarto d’ora, e io non ricordo a cosa stessi pensando in quei momenti, forse ancora pregavo mia nonna o Dio o tutt’e due assieme. Il furgone sterzò, e riconobbi la strada dove abitava mia zia…” Raccontato con penna lieve, Volevo i pantaloni è romanzo che sollecita più di una riflessione. Sulla condizione ancestrale della donna, per esempio, inserita in una mentalità di paese, attributo della Sicilia degli anni ’60. Sulla tradizione, assai negativa, di dedicarsi al pettegolezzo come unico scopo dello scorrere del tempo appartenente alle donne del paesotto in cui sono inserite le vicende descritte. Denuncia di una situazione in cui una donna non dovrebbe mai trovarsi, arrivando ad essere vittima anche di sé stessa. Ma, la riflessione più attenta che merita la narrazione è quella sulla condizione femminile di quegli anni, situazione in cui la donna non aveva possibilità di scegliere né il proprio compagno e neppure una qualsiasi sbocco professionale che le fosse congeniale, situazione in cui spesso, mio malgrado e ancora ai nostri giorni, si trovano ancora tante donne extracomunitarie. Il caso di Sana Cheema, la ragazza pakistana uccisa nel 2018 nel suo Paese perché intenzionata a sposare un italiano è solo l'ultimo di una lunga serie di drammi aventi come protagoniste giovani donne vittime di violenze da parte di famigliari solo per aver fatto scelte a loro invise. La 25enne, che aveva sempre seguito gli usi occidentali anche in fatto di abbigliamento, aveva programmato da tempo il ritorno in patria necessario anche per la ricerca dei documenti per il matrimonio: i suoi familiari, dopo gli anni trascorsi in Italia dove avevano anche ottenuto la cittadinanza, si erano trasferiti per un periodo in Germania in cerca di lavoro. Lei però non aveva voluto lasciare la Lombardia dalla quale era tuttavia rientrata di tanto in tanto in Pakistan. Niente le lasciava intuire che non sarebbe più tornata, vittima di un "delitto d'onore" messo in atto dagli stessi familiari che non vogliono accettare le libere scelte di una giovane donna, un atteggiamento arcaico che ogni anno costa la vita a centinaia di donne. La violenza sulle donne ha molti volti; dai reati come la violenza fisica a quella sessuale, lo stupro, senza dimenticare la violenza psicologica. In Italia e nel mondo subisce violenza, mediamente, una donna su tre dai 15 anni in su. Il timore della violenza è confermato dal dato secondo il quale il 53% di donne in tutta l’Unione Europea afferma di evitare determinati luoghi o situazioni per paura di essere aggredita. Un atto di violenza contro le donne può accadere ovunque: dentro le mura domestiche, sul posto di lavoro, per strada. Sono spesso i partner o gli ex partner a commettere gli atti più gravi: in Italia sono, infatti, responsabili del 62,7% degli stupri. Una lunga scia di violenza che può culminare con l’estrema conseguenza: il femminicidio. Nel 38% dei casi di omicidi di donne, il responsabile è, ancora una volta, il partner. Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una data scelta non a caso. In questo stesso giorno del 1960, furono uccise le tre sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana. È una data importante, per ricordare a tutti che il rispetto è alla base di ogni rapporto e che non possiamo continuare a veder crescere il numero delle donne che subiscono violenza.

Daria Finocchiaro 5B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania




Cara donna,
a te che a volte programmi la vita in base a quando ti devi lavare i capelli.
A te che ci sono giorni in cui vorresti chiuderti in casa e non vedere nessuno, altri in cui invece non riesci a stare da sola e chiami la tua migliore amica con la scusa del “Non puoi capire cosa è successo oggi”, anche quando in realtà non è successo niente.
A te che a volte reciti come nessuno la parte di quella che non cede, di quella con un’armatura che non può essere scalfita, ma poi rileggi le vecchie conversazioni e a volte ti fa salire qualcosa che per un attimo ti blocca. Occhi lucidi e colpo al cuore.
A te che eliminare una chat a volte è un gesto eroico. Spesso non ti hanno capita, ma il più delle volte era perché non ti hanno saputa ascoltare.
A volte ti capiterà di non sentirti abbastanza; abbastanza intelligente, furba, bella, giovane. Non ti preoccupare, stai solo guardando dritto negli occhi una paranoia. Imparerai a guardarla e a mandarla a quel paese. Fatti forza. In quei momenti non devi cercare mille motivi per cui non vai bene, trovane qualcuno per cui invece vai benissimo.
A volte ti capiterà di essere troppo; troppo intelligente, troppo bella, troppo furba. Sempre troppo qualcosa. Troppo donna. E questo potrebbe far sentire un uomo meno uomo, un’altra donna non poi così donna. Tu potresti perfino aver voglia di essere un po’ meno di quello che sei. Non farlo. Non togliere peso al tuo carattere. Dicono che l’errore più grande che possa fare una regina è togliere i gioielli dalla propria corona perché qualcuno possa reggerne il peso con più facilità. Ecco quando ciò accade bisogna che tu comprenda che quello che ti serve non è una corona più leggera, ma un uomo con delle mani più grandi.
               
                                                                                     Dedicato a tutte le donne, Francesco Sole

Rincuora leggere certe parole, e ancor di più se scritte da un uomo. Nel corso degli anni la donna in alcuni paesi ha ottenuto più diritti, ma ciò purtroppo non toglie l’esistenza di uomini che considerano il loro genere superiore. Per cui pensano che sia giusto molestarle, picchiarle e addirittura ucciderle. La situazione non può essere eliminata del tutto, ma può essere limitata. Purtroppo coloro incaricati di salvaguardare le donne e di punire i delinquenti non svolgono un lavoro efficiente. Infatti spesso tutte le donne uccise dal marito, fidanzato, padre o amico avevano prima denunciato alcuni loro atteggiamenti. Avevano chiesto aiuto, ma nessuno le sentiva… O meglio: nessuno le voleva sentire.

Alice Salamone Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania




Nessun commento:

Posta un commento