Leggere gli storici latini in ottica di genere

Destereotipando-Leggere e commentare il racconto degli storici latini in ottica di genere: da Livio a Svetonio ( a cura della prof. Maria Pia Dell'Erba) 


Lucrezia

Livio, Ab Urbe condita I,58

Paucis interiectis diebus Sex. Tarquinius inscio Collatino cum comite uno Collatiam venit. Ubi exceptus benigne ab ignaris consilii cum post cenam in hospitale cubiculum deductus esset, amore ardens, postquam satis tuta circa sopitique omnes videbantur, stricto gladio ad dormientem Lucretiam venit sinistraque manu mulieris pectore oppresso "Tace, Lucretia" inquit; "Sex. Tarquinius sum; ferrum in manu est; moriere, si emiseris vocem." Cum pavida ex somno mulier nullam opem, prope mortem imminentem videret, tum Tarquinius fateri amorem, orare, miscere precibus minas, versare in omnes partes muliebrem animum. Ubi obstinatam videbat et ne mortis quidem metu inclinari, addit ad metum dedecus: cum mortua iugulatum servum nudum positurum ait, ut in sordido adulterio necata dicatur. Quo terrore cum vicisset obstinatam pudicitiam velut vi victrix libido, profectusque inde Tarquinius ferox expugnato decore muliebri esset, Lucretia  maesta tanto malo nuntium Romam eundem ad patrem Ardeamque ad virum mittit, ut cum singulis fidelibus amicis veniant; ita facto maturatoque opus esse; rem atrocem incidisse. Sp. Lucretius cum P. Valerio Volesi filio, Collatinus cum L. Iunio Bruto venit, cum quo forte Romam rediens ab nuntio uxoris erat conventus. Lucretiam sedentem maestam in cubiculo inveniunt. Adventu suorum lacrimae obortae, quaerentique viro "Satin salve?" "Minime" inquit; "quid enim salvi est mulieri amissa pudicitia? Vestigia viri alieni, Collatine, in lecto sunt tuo; ceterum corpus est tantum violatum, animus insons; mors testis erit. Sed date dexteras fidemque haud impune adultero fore. Sex. est Tarquinius qui hostis pro hospite priore nocte vi armatus mihi sibique, si vos viri estis, pestiferum hinc abstulit gaudium." Dant ordine omnes fidem; consolantur aegram animi avertendo noxam ab coacta in auctorem delicti: mentem peccare, non corpus, et unde consilium afuerit culpam abesse. "Vos" inquit "videritis quid illi debeatur: ego me etsi peccato absolvo, supplicio non libero; nec ulla deinde impudica Lucretiae exemplo vivet." Cultrum, quem sub veste abditum habebat, eum in corde defigit, prolapsaque in volnus moribunda cecidit. Conclamat vir paterque.TraduzionePassati pochi giorni, Sesto Tarquinio, a insaputa di Collatino, venne con un compagno a Collatia. Quando fu ospitato benignamente da loro, ignari del piano, essendo stato portato dopo cena nella camera degli ospiti, ardendo d'amore, dopo che sembrava che i luoghi attorno fossero sicuri e che tutti dormissero, stretta la spada venne da Lucrezia mentre dormiva, e premuto il petto della donna con la mano sinistra disse: "Taci, Lucrezia, sono Sesto Tarquinio; sono armato; morirai, se emetterai voce". Non vedendo la donna, svegliatasi spaventata, nessun'aiuto e la morte quasi imminente, allora Tarquinio dichiarava il suo amore, la pregava, miscelava le minacce alle preghiere, cercava in ogni modo di far breccia nell'animo della donna. Quando la vedeva ostinata e che non era smossa nemmeno dalla paura della morte, aggiunge alla paura il disonore: disse che quando fosse morta avrebbe messo un servo nudo sgozzato, affinché si dica che fosse stata uccisa in un ignobile adulterio.
Avendo vinta con questo terrore l'ostinata pudicizia come se fosse vincitore il desiderio, e, espugnato l'onore, essendo il feroce Tarquinio andato via da lì, Lucrezia, triste per una così grande disgrazia, manda lo stesso messaggio dal padre a Roma e dal marito ad Ardea, affinché vengano con un solo amico fedele;diceva così, che c'era bisogno che venissero con urgenza, era successo un fatto terribile. Vennero Spurio Lucrezio con P. Valerio figlio di Volesio, e Collatino con Lucio Giunio Bruno, con il quale tornando per caso a Roma, era stato avvisato dal messaggero della moglie.
Trovarono Lucrezia che sedeva triste in una stanza. All'arrivo dei suoi le scesero le lacrime, e al marito che le chiedeva: "Stai bene?", disse: "Per niente, cosa c'è infatti di bene per una donna, quando ha perso la pudicizia? Le tracce di un altro uomo, Collatino, sono nel tuo letto; infatti solo il corpo è stato violato, l'anima è innocente; la morte sarà testimone. Ma date la destra e la parola che l'adultero non sarà impunito. È Sestio Tarquinio, che da nemico invece di ospite la scorsa notte armato di violenza ha allontanato per me e per sé, se voi siete uomini, la gioia infausta da qui".
Tutti danno la parola in ordine; la consolano infelice nell'animo, spostando la colpa da lei costretta all'autore del delitto: dicono che la mente pecca, non il corpo, che non c'è colpa da cui non c'è stata del deliberazione. "Voi - disse - vedete ciò che si debba a lui; io anche se mi assolve dal peccato, non mi libero dal supplizio; quindi nessuna impudica viva, su esempio di Lucrezia".
Conficcò nel cuore quel coltello che teneva nascosto sotto la veste, e infertasi una ferita, moribonda cadde. Il marito e il padre gridano.
COMMENTI

1) La storia di Lucrezia è una storia di violenza e di abusi che si ripete ancora oggi. Nulla è cambiato dalla nascita della città di Roma ad oggi, neppure quella mentalità   maschilista che giustifica l’atto come pura gelosia o raptus.    L’amore non è folle gelosia né violenta possessione, non si nutre di sofferenza ma bensì di felicità. Chi ama davvero non toglierebbe mai la vita ad una fidanzata, una madre, una lavoratrice, una moglie, ma prima di tutto ad un essere umano al pari di tutti gli altri. Le donne oggi sono Vittime per ben due volte: prima perché uccise dagli uomini e oltraggiate, infine dalla cronaca giornalistica che esplica le motivazioni dei carnefici come atti giustificabili e leciti. È necessario muovere le coscienze e gli animi della società affinché possa essere educata ad un amore libero e lontano da queste tragedie e si possa scrivere la parola “fine” ad un eccidio femminile infinito. (Greta Strano 4B)
2) Il tema del femminicidio è stato presente nella letteratura sin dai tempi più antichi. Livio, nel suo Ab Urbe Condita, ci ricorda il celebre episodio della cacciata dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo: ad accendere gli animi dell’insurrezione, cui seguì l’instaurazione della Repubblica, fu l’oltraggio compiuto da Sesto Tarquinio, figlio del re tiranno, ai danni della nobile matrona romana Lucrezia, moglie di Collatino, che dopo aver subito la brutalità dello stupro decise di togliersi la vita, lavando con il proprio sangue la vergogna che provava. Ma doveva essere lei a vergognarsi? ( Edoardo Pidatella 5B)
Virginia


Livio, Ab urbe condita III, 44-48


Ancora Livio racconta la storia di Virginia, una giovane plebea “corteggiata” e rapita dal patrizio Appio Claudio: l’uomo intentò un processo alla fanciulla, con lo scopo di ridurla al rango di schiava al suo servizio, ma il padre della ragazza, Virginio, che non avrebbe mai accettato un tale destino per la propria figlia, decise di assicurarle la libertà “nell’unico modo in cui gli fu possibile”: con la morte. 

"Subito dopo accadde in città un altro delitto originato dalla libidine, che ebbe conseguenze non meno orribili di quello che attraverso lo stupro e la morte di Lucrezia aveva cacciato i Tarquini dalla città e dal regno: non solo dunque i decemviri fecero la stessa fine dei re, ma anche la causa della perdita del potere fu la stessa. 
Appio Claudio fu preso dal desiderio di possedere una ragazza plebea. Il padre di lei Lucio Virginio, esemplare cittadino e soldato, comandava una centuria scelta sull’Algido. Allo stesso modo era stata educata la moglie ed erano educati i figli. La ragazza era promessa all’ex-tribuno Lucio Icilio, uomo ardito e di sperimentato valore nella difesa della plebe. Pazzo d’amore per questa ragazza già matura per le nozze, e bellissima, Appio, dopo avere tentato di adescarla col denaro e con le lusinghe, e aver constatato che la via gli era chiusa dal pudore, rivolse il suo animo ad una feroce e superba violenza. 
Allora diede incarico al suo cliente Marco Claudio di reclamare la ragazza come sua schiava, e di non cedere alla richiesta di libertà provvisoria, approfittando del fatto che il padre della ragazza non era presente. Quando la ragazza venne nel foro (dove nei padiglioni si teneva la scuola) il ruffiano del decemviro le mise le mani addosso, dicendo che era figlia di una sua schiava e schiava essa stessa, e le ordinò di seguirlo: se rifiutava l’avrebbe trascinata con la forza. La ragazza era spaventata e attonita, ma alle grida della nutrice che invocava l’aiuto dei Quiriti accorse gente; i nomi del padre Virginio e del fidanzato Icilio erano assai popolari. Chi li conosceva era conquistato dal favore per loro, il resto della folla dall’indegnità della vicenda. 
Già era al sicuro dalla violenza, quando il reclamante dichiarò che quella folla esagitata non c’entrava niente: lui se ne voleva impadronire secondo il diritto e non secondo violenza. Cita dunque la ragazza in giudizio. I presenti le consigliano di seguirlo, e dunque si arriva al tribunale di Appio. Il reclamante racconta una balla ben nota al giudice, che anzi ne era l’inventore: la ragazza era nata in casa sua, era stata rubata e portata in casa di Virginio come sua figlia. Di questo aveva una prova sicura, e l’avrebbe sottoposta al giudizio del medesimo Virginio, il quale era la parte più offesa. Intanto era giusto che la schiava seguisse il padrone. 
I difensori della ragazza sostenevano che Virginio era assente per svolgere un servizio pubblico, ma poteva arrivare entro due giorni se lo si fosse informato: non era giusto che fosse assente mentre si dibatteva su sua figlia. Chiedono che Claudio lasci la questione impregiudicata fino all’arrivo del padre, e che intanto conceda la libertà provvisoria secondo la legge emanata da lui medesimo, e non permetta che una vergine ormai adulta corra il pericolo di perdere l’onore prima ancora della libertà. 
Appio introdusse la sua sentenza dicendo che quanto teneva alla libertà era dimostrato dalla legge di cui gli amici di Virginio invocavano l’applicazione; peraltro essa costituiva una solida garanzia di libertà solo a patto che fossero ben definite situazioni e persone. Per chi rivendicava la libertà, la libertà provvisoria spettava comunque, giacché chiunque per legge poteva avviare la causa; ma nel caso di una donna sottoposta alla patria potestà, non c’era nessun altro oltre il padre nei confronti del quale il padrone potesse rinunciare alla proprietà. 
La sentenza era dunque che si chiamasse il padre, ma intanto il reclamante non doveva subire una lesione al suo diritto impedendogli di portar via la ragazza, sia pure con la promessa di farla comparire in giudizio all’arrivo del padre presunto. Contro l’ingiustizia della sentenza molti fremevano, ma nessuno osava opporsi, finché arrivarono lo zio della ragazza Publio Numitorio e il fidanzato Icilio. Si fecero strada nella calca e mentre la folla pensava che, soprattutto con l’arrivo di Icilio, si potesse resistere, il littore dichiarò che la sentenza era stata già pronunciata e respinse Icilio che protestava. Un’offesa così terribile avrebbe infiammato anche l’indole più pacifica. Icilio disse: “Devi mandarmi via col ferro, Appio, per far restare sotto silenzio quello che vuoi nascondere. Io devo sposare questa ragazza e riceverla pura il giorno delle nozze. Pertanto convoca pure tutti i littori, anche quelli dei tuoi colleghi, fa’ preparare le scuri e le verghe, ma la fidanzata di Icilio non starà fuori dalla casa del padre. Anche se avete tolto l’intercessione tribunizia e l’appello alla plebe romana, i due capisaldi della garanzia di libertà, non per questo alla vostra libidine è concesso il dominio sui nostri figli e sulle nostri mogli. Infierite contro le nostre schiene e le nostre teste, ma almeno il pudore deve essere al sicuro. Se viene fatta violenza a questa ragazza, io invocherò l’aiuto dei cittadini per la mia fidanzata, Virginio quello dei soldati per l’unica figlia, e tutti la protezione degli uomini e degli dei, perché tu non possa eseguire la tua sentenza senza far strage di noi. Ti chiedo, Appio, di fare attenzione alla strada in cui ti metti. Virginio, quando arriverà, vedrà lui cosa fare della figlia; ma deve sapere che se cede alle rivendicazioni di costui dovrà cercarle un altro marito. Nella difesa della libertà della mia fidanzata perderò la vita prima che mancare alla mia parola”. 
La folla era agitata e sembrava vicino uno scontro. I littori avevano circondato Icilio, ma non si andò oltre le minacce: Appio dichiarò che Icilio non difendeva Virginia, ma, da uomo turbolento e ancora acceso di fuoco tribunizio com’era, cercava il pretesto per una sedizione. In quel giorno non gliel’avrebbe offerto; sapesse però che ciò non era concesso alla sua arroganza, ma a Virginio assente, al nome di padre, alla libertà; in quel giorno non avrebbe pronunciato la sentenza né anticipato nessuna decisione; avrebbe chiesto a Marco Claudio di rinunciare al suo diritto e rivendicare la proprietà della ragazza solo il giorno successivo. Se il giorno dopo il padre non si fosse presentato, avvisava Icilio e i suoi simili che il legislatore non avrebbe violato la propria legge, e il decemviro non avrebbe mancato di fermezza. Non aveva bisogno di chiamare i littori dei colleghi per tenere a bada i sediziosi: gli sarebbero bastati i suoi. 
Essendo dunque rimandato il momento dell’oltraggio, i sostenitori della ragazza tennero consiglio segreto e prima di tutto decisero che il fratello di Icilio e il figlio di Numitorio, giovani svegli, si dirigessero subito alla porta e facessero venire Virginio dal campo il più presto possibile: la salvezza della ragazza dipendeva dal fatto che si trovasse là il giorno dopo in tempo per opporsi al sopruso. 
Ricevuto l’incarico, i giovani partono a spron battuto e portano la notizia al padre. Poiché il reclamante insisteva che Icilio fornisse dei garanti per la richiesta di libertà provvisoria, Icilio rispose che se ne stava occupando, ma in realtà cercava di guadagnare tempo per dare vantaggio ai messi mandati al campo: tutta la folla alzava le mani, ognuno si dichiarava pronto a offrire garanzia per Icilio. 
Lui piangendo disse: “Vi ringrazio; domani avrò bisogno della vostra opera: per adesso di garanti ce n’è abbastanza”. Così Virginia ottenne la libertà provvisoria su richiesta dei congiunti. Appio si trattenne ancora un po’, per non dare l’impressione di avere tenuto udienza solo per quel motivo, ma poiché nessuno si presentava (tutti trascuravano gli altri affari riponendo in quello tutto l’interesse) tornò a casa e scrisse ai colleghi nell’accampamento di non dare la licenza a Virginio e tenerlo sotto sorveglianza. 
Il malvagio consiglio fu tardivo, com’era giusto, e Virginio aveva già ottenuto la licenza ed era partito la sera, quando la mattina dopo, inutilmente, arrivò la lettera con l’ordine di trattenerlo. Già all’alba tutta la città stava nel foro in grande attesa, quando Virginio, in abito da supplice, con la figlia vestita di un abito squallido e alcune matrone con un grande seguito di sostenitori entrò nel foro. 
Cominciò ad andare in giro raccomandandosi ai presenti, e non chiedendo loro soltanto un aiuto per compassione, ma reclamandolo come dovuto: lui ogni giorno stava in prima linea a difendere i loro figli e le loro mogli, e non c’era nessuno di cui si ricordassero più atti di valore e di coraggio: ma a che serviva se, pur essendo la città sana e salva, i suoi figli correvano gli stessi rischi estremi di una città conquistata? Tenendo queste che erano quasi arringhe, andava in giro a raccomandarsi; e cose simili diceva anche Icilio. Il seguito delle donne commuoveva più col pianto silenzioso che non con qualsiasi parola. 
Di fronte a tutto ciò Appio, più che mai ostinato (tanta follia, più che amore, aveva sconvolto il suo animo) salì alla tribuna e dopo che il reclamante si fu brevemente lagnato che il giorno prima, a motivo di pressioni sediziose, non gli era stata resa giustizia, prima ancora che lui avanzasse le sue richieste e Virginio avesse facoltà di rispondere, prese lui la parola. In che modo introdusse la sua sentenza, forse alcuni autori antichi l’hanno tramandato in forma autentica, ma poiché di questo obbrobrio non ho trovato nessuna versione verisimile, penso di dover riferire il nudo fatto: la sentenza che stabiliva la schiavitù di Virginia. 
Dapprima lo stupore per una cosa così orribile paralizzò tutti, e per un po’ di tempo vi fu silenzio. Poi, quando Marco Claudio andò a prendere la vergine circondata dalle matrone, e cominciò la lamentazione delle donne, allora Virginio, tendendo le mani verso Appio, disse: “A Icilio, non a te, Appio, ho promesso mia figlia, l’ho educata per prepararla alle nozze, non a uno stupro. Vuoi che ricadiamo negli accoppiamenti promiscui, come le bestie? Io non so se questi lo sopporteranno, ma spero che non lo sopporteranno quelli che hanno armi”. Il reclamante fu respinto dal gruppo delle donne e dai sostenitori che le circondavano, e il banditore intimò il silenzio. Il decemviro, cui la libidine aveva fatto perdere la testa, affermò che non solo dagli schiamazzi di Icilio il giorno prima e dalla violenza di Virginio, di cui il popolo romano era testimone, ma da prove certe sapeva che in tutta la notte si erano tenute riunioni segrete per preparare la sedizione. Per questo lui, perfettamente consapevole del conflitto, era sceso nel foro con una scorta armata, non per far del male a pacifici cittadini, ma per reprimere con la dignità della sua carica i turbatori della pubblica quiete. 
“Perciò – disse  sarà meglio che stiate tranquilli: va’, littore, disperdi la folla e fa’ largo al padrone che prenda possesso dello schiavo”. A queste parole, pronunciate con voce tonante e piena di collera, la folla si scostò spontaneamente e la ragazza rimase abbandonata, in preda all’oltraggio. 
Allora Virginio, non vedendo più nessun aiuto, disse: “Ti prego, Appio, se ho pronunciato contro di te qualche parola forte, perdona al dolore di un padre; poi permettimi di chiedere alla nutrice, in presenza della ragazza, com’è andata questa faccenda in modo che, se sono stato considerato suo padre a torto, possa andarmene di qua più tranquillo”. Gli fu data licenza di farlo, e condusse in disparte la figlia e la nutrice al tempio di Venere Cloacina, presso le botteghe ora chiamate “Nuove”, e qui prese un coltello dal macellaio e disse: “Nel solo modo che posso, figlia mia, ti restituisco la libertà”. E le trafisse il petto, guardando verso il tribunale e aggiungendo: “Con questo sangue, Appio, maledico te e il tuo sangue”. 
Appio, richiamato dal clamore sorto al terribile fatto, ordina di arrestare Virginio, il quale si apriva dovunque la strada col ferro finché, protetto dalla folla dei suoi sostenitori, arrivò alla porta. Icilio e Numitorio sollevano il corpo esanime di Virginia e lo mostrano al popolo, deplorando il delitto di Appio, l’infelice bellezza della ragazza, la necessità in cui si era trovato il padre. 

Commento
Viviamo in una società  maschilista, misogina e soprattutto costellata di disparità. Siamo molto lontani dalla parità di genere, e invece di avvicinaci ci allontaniamo sempre di più. Considero la disparità di genere un problema legato all’educazione, che ha radici vecchie quanto il mondo. Dobbiamo combattere per ciò che è nostro diritto, tutte noi donne, senza avere paura. Perché è proprio la paura che impedisce di lasciare un compagno violento, o di denunciare un fidanzato stalker. Ma più di tutto non ci dobbiamo sentire come se fosse colpa nostra. Come se indossare un vestito più corto autorizzi uno stupro. 
Atena Scrofani 5B



Svetonio, De vita Caesarum, VI,35. Nerone e le sue mogli





“Uxores praeter Octaviam duas postea duxit, Poppaeam Sabinam quaestorio patre natam et equiti Romano antea nuptam, deinde Statiliam Messalinam Tauri bis consulis ac triumphalis abneptem. Qua ut poteretur, virum eius Atticum Vestinum consulem in honore ipso trucidavit. Octaviae consuetudinem cito aspernatus corripientibus amicis sufficere illi debere respondit uxoria ornamenta. 2 Eandem mox saepe frustra strangulare meditatus dimisit ut sterilem, sed improbante divortium populo nec parcente conviciis etiam relegavit, denique occidit sub crimine adulteriorum adeo impudenti falsoque, ut in quaestione pernegantibus cunctis Anicetum paedagogum suum indicem subiecerit, qui fingeret et dolo stupratam a se fateretur. 3 Poppaeam duodecimo die post divortium Octaviae in matrimonium acceptam dilexit unice; et tamen ipsam quoque ictu calcis occidit, quod se ex aurigatione sero reversum gravida et aegra conviciis
incesserat. Ex hac filiam tulit Claudiam Augustam amisitque admodum infantem.”

“Oltre ad Ottavia, ebbe due altre mogli: prima Poppea Sabina, figlia di un anziano questore, e sposata in precedenza ad un cavaliere romano, poi Statilia Messalina, pronipote di Tauro che fu due volte console e ricevette il trionfo. Si stancò subito di Ottavia e, poiché i suoi amici glielo rimproveravano, egli rispose che «essa doveva accontentarsi delle insegne del matrimonio». In seguito, avendo tentato più volte, senza riuscirvi, di farla strangolare, la ripudiò con il pretesto della sterilità, ma poiché il popolo disapprovava il suo divorzio e non gli risparmiava le sue invettive, la relegò e infine la fece mettere a morte, sotto l'imputazione di adulterio; l'accusa era così impudente e calunniosa che all'istruttoria tutti i testimoni si ostinarono a negare e Nerone dovette costringere a far denuncia il suo pedagogo Aniceto che si accusò, falsamente, di aver abusato di lei con uno stratagemma. Undici giorni dopo il divorzio da Ottavia, Nerone sposò Poppea, che amò più di tutto, e tuttavia uccise anche lei, con un calcio, perché, incinta e malata, lo aveva rimproverato aspramente una sera che era rincasato tardi da una corsa di carri. Da lei ebbe una figlia, Claudia Augusta che morì ancora bambina. Non vi è nessuna categoria di parenti che fosse al riparo dei suoi delitti. Poiché Antonia, la figlia di Claudio, rifiutava di sposarlo, dopo la morte di Poppea, egli la fece uccidere con il pretesto che fomentava una rivoluzione.”

Commento

Nerone si è macchiato di crimini e di tanti atti ignobili tra cui uccidere    donne a cui lui era legato, anche la sua stessa madre…Dopo tante conquiste ancor oggi  le donne combattono contro questi uomini, (se così si possono definire), primitivi e insicuri e fortemente instabili, e questo non li giustifica per i loro orrori. 
Marina Bentivegna 4B


Leggere Dante in ottica di genere

Proposte di letture e commenti delle e degli studenti (a cura della professoressa Maria Pia Dell’Erba)





Dante, Inferno V, 88-138

«O animal grazioso e benigno 
che visitando vai per l’aere perso 
noi che tignemmo il mondo di sanguigno, 

se fosse amico il re de l’universo, 
noi pregheremmo lui de la tua pace, 
poi c’hai pietà del nostro mal perverso. 

Di quel che udire e che parlar vi piace, 
noi udiremo e parleremo a voi, 
mentre che ’l vento, come fa, ci tace. 

Siede la terra dove nata fui 
su la marina dove ’l Po discende 
per aver pace co’ seguaci sui. 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende 
prese costui de la bella persona 
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. 

Amor, ch’a nullo amato amar perdona, 
mi prese del costui piacer sì forte, 
che, come vedi, ancor non m’abbandona. 

Amor condusse noi ad una morte: 
Caina attende chi a vita ci spense». 
Queste parole da lor ci fuor porte. 

Quand’io intesi quell’anime offense, 
china’ il viso e tanto il tenni basso, 
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?». 

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, 
quanti dolci pensier, quanto disio 
menò costoro al doloroso passo!». 

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, 
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri 
a lagrimar mi fanno tristo e pio. 

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, 
a che e come concedette Amore 
che conosceste i dubbiosi disiri?». 

E quella a me: «Nessun maggior dolore 
che ricordarsi del tempo felice 
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. 

Ma s’a conoscer la prima radice 
del nostro amor tu hai cotanto affetto, 
dirò come colui che piange e dice. 

Noi leggiavamo un giorno per diletto 
di Lancialotto come amor lo strinse; 
soli eravamo e sanza alcun sospetto. 

Per più fiate li occhi ci sospinse 
quella lettura, e scolorocci il viso; 
ma solo un punto fu quel che ci vinse. 

Quando leggemmo il disiato riso 
esser basciato da cotanto amante, 
questi, che mai da me non fia diviso, 

la bocca mi basciò tutto tremante. 
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: 
quel giorno più non vi leggemmo avante».


COMMENTI


Dante, oltre a essere uno degli autori piu’ importante della nostra letteratura, aveva anche una mentalità incredibilmente moderna per il suo tempo. L’autore condanna Paolo e Francesca all’inferno perché per la mentalità del tempo il peccato di adulterio merita condanna. Tuttavia il suo giudizio personale è altra cosa: Dante prova profonda pena ed empatia per quei due giovani amanti che, sebbene abbiano peccato, non meritavano certo questa tragica fine. Francesca, vittima di femminicidio, è un esempio di donna sottomessa ad una struttura culturale che evidenzia il predominio dell’uomo. 

Mario Ciancio 5B  Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania


Il crimine della violenza a danno delle donne si può ricollegare alla storia di Paolo e Francesca  uccisi dal marito di Francesca e fratello di Paolo. Il femminicidio non è solo violenza fisica sulla donna, ma è soprattutto violazione della libertà di vivere e inoltre violenza psicologica. 
Bruno Borgh 4B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania




Dante, Purgatorio V, 130-136

"Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via",
seguitò 'l terzo spirito al secondo,

"ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria

disposando m’avea con la sua gemma".



 

Dolente Pia di Gianna Nannini

Dolente Pia, dolente Pia
Dolente Pia innocente è prigioniera
Col capo chino
La fronte al seno
Pensa a quei giorni del passato
Ricordi in fior
Torna, sento già
La tua luce nell'anima
Sei, qui con me
Sono le braccia tue che stringo
Per quanti mesi
E notti e giorni
Non saprei dire non lo so
Ma questo è certo
Ci fu l'inverno, poi primavera
La vita torna nel castello
Ma non per me
Guarda, se ne va
Questo sogno di te
Là batte l'onda e un cavallo galoppa
Ma l'amore, il nostro amor
Marcisce dietro a questa porta
Ma l'amore, il questo amor
Marcisce dietro a quella porta
Fa sempre freddo, in quelle mura
Il cielo è chiaro ma la terra resta scura
Poi il primo verde
La lunga luce
Pensa a quei giorni del passato
Ricordi in fior
Dolente Pia, dolente Pia
Dolente Pia innocente è

COMMENTI

Nel V canto del Purgatorio ci troviamo, nel primo e secondo balzo dell’Antipurgatorio, di fronte alle anime che si pentirono solo al momento della morte violenta e dunque improvvisa. Dante e Virgilio qui incontrano diversi personaggi, Iacopo del Cassero e Buonconte da Montefeltro, ma la vera protagonista di questo canto è una donna: “Ricordati di me, che son la Pia” (v.133). Questo dice Pia de’ Tolomei quando incontra Dante.  Sposa di Nello de’ Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, fu uccisa dal marito che, secondo alcuni, la fece precipitare dal balcone del suo castello della
Pietra, in Maremma, dopo averla tenuta prigioniera per diversi giorni. O secondo altre ipotesi sarebbe morta per la malaria, in seguito alla prigionia nel castello.  Anche sulla causa del delitto vi sono diverse ipotesi: secondo alcuni, la punizione di un’infedeltà, secondo altri la volontà di lui di risposarsi. Oggi anche grazie alla musica possiamo trovare la figura di questa donna, che ci viene descritta in chiave rock dalla cantante, anch’essa senese, Gianna Nannini, che nel 2007 le dedica un intero album: “Pia come la canto io”. La canzone che più di tutte ci descrive questa donna è sicuramente “Dolente Pia”, poiché proprio attraverso questo aggettivo, è presentata una giovane prigioniera innocente e pudica, china su se stessa, che nostalgicamente ripensa ai giorni felici e sente fra le fredde mura del castello il caldo abbraccio del marito: “Dolente Pia, dolente Pia, /dolente Pia innocente è prigioniera./ Col capo chino, la fronte al seno,/ pensa a quei giorni del passato ricordi in fior.” Il tema della violenza sulle donne è un tema che Dante tratta non solo nel V canto del Purgatorio con Pia de’ Tolomei, ma anche nel V canto dell’Inferno con l’episodio di Paolo e Francesca, e successivamente nel V canto del Paradiso con Piccarda e Costanza d’Altavilla. Inoltre il poeta fiorentino scrisse di un problema, già riscontrato all’epoca, ma ancora oggi presente in Italia e non solo. Oggi con il termine femminicidio indichiamo una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna, “perché donna”. Da pochi anni, però, sentiamo parlare di questo problema, che ultimamente ha raggiunto dimensioni eclatanti. Infatti la maggior parte delle vittime sono donne che continuano a subire violenze anche dopo aver denunciato i fatti e il colpevole. Ai telegiornali si sentono storie, quasi sempre simili tra loro, di donne uccise dal marito, il convivente, o il fidanzato, che avevano già denunciato alcuni atti di violenza, ma non era stato preso nessun provvedimento; le violenze erano continuate e poi concluse con l’assassinio. Nessuno aveva dato ascolto alle richieste di aiuto da parte delle donne e poi ci si stupisce quando queste vengono uccise. Capita anche che, dopo l’accaduto, gli uomini non sono puniti adeguatamente e le famiglie delle vittime, oltre al dolore subito, non possono avere giustizia. Per questo dal 2013, con l’approvazione della convenzione di Istanbul, ad oggi il Parlamento Italiano ha creato dei decreti legge per cercare di limitare e risolvere questo problema, poiché  come dice la costituzione italiana ‘i cittadini hanno stessa dignità sociale davanti alla legge, senza distinzione di sesso’ e quindi le donne vanno tutelate e rispettate, e soprattutto si devono sentire protette dalla legge. Spesso però è difficile trovare il coraggio di denunciare le violenze subite. Esistono, infatti, molte associazioni contro il femminicidio e la violenza sulle donne, che le accolgono e le proteggono dalle conseguenze che potrebbe avere la denuncia. Non bisogna farsi abbattere mai dalla paura, anche se difficile e doloroso si deve invece trovare coraggio e parlare, poiché solo facendo conoscere il problema si può trovare una soluzione e avere giustizia.
Costanza Gennari 5B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania

Marco Di Ruggiero 4B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania


 “Dolente Pia, dolente Pia,  dolente Pia innocente e prigioniera.  Col capo chino, la fronte al seno,  pensa a quei giorni del passato ricordi in fior”.
Così Gianna Nannini, attraverso il canto rievoca la figura di una donna la cui storia è ancora avvolta nel mistero. La canzone inizia subito con l’affrontare lo stato d’animo e la condizione di solitudine
in cui si trova Pia; chiusa nella torre del Castello della Pietra, non distante da Massa Marittima, in Maremma (territorio senese). Lei purtroppo è un'innocente prigioniera, vittima senza alcuna colpa, tradita dall'amore!! Desolata e priva di speranza, è china su se stessa, quasi volesse trovare conforto sulla sua stessa pelle, ripensando a quei giorni passati che hanno lasciato il profumo della vita sul suo corpo. La prima strofa dunque già apre il sipario e ci cala nella storia, lasciandoci respirare la triste immagine di Pia. La seconda strofa si apre con l' imperativo "torna", velato dal forte desiderio di rincontrare il proprio marito, immaginando di essere ancora una volta tra le sue braccia, e di rivedere la fiacca luce dell'irrealtà. Nasce dunque un'illusoria speranza in questi primi due versi, ma già dal terzo si ritorna a toccare con mano la realtà.
Gli studiosi affermano diversi tesi ma quella più avvincente è quella di una vittima d’amore, uccisa dal marito. Quest’ultimo era il signore di un’importante famiglia e sembra proprio che lui abbia ucciso Pia buttandola dalla finestra. Infatti è necessario citare le parole del nostro autore la cui semplicità ci permette di interpretare la vita di Pia dei Tolomei attraverso solamente 4 versi:
“Ricorditi di me, che son la Pia, Siena mi fé, disfecemi Maremma: Salsi colui che ‘nanellata pria disposando m’avea con la sua gemma”.
Per quanto si tratti di una storia avente luogo molto tempo fa, sappiamo quanto Dante sia attuale in ciò che dice e in ciò che ci vuole fare intendere. Infatti quante volte abbiamo ascoltato al telegiornale di omicidi, anzi femminicidi poiché “omicidi di donne in quanto donne", scaturiti dalla gelosia che l’uomo prova nei confronti di una donna? Spesso, sempre uomini, giustificano questo gesto crudele incolpando la propria moglie o compagna di infedeltà, ma quello di cui non si preoccupano è proprio farsi delle domande. Per molti uomini l’unica cosa che alimenta la relazione matrimoniale (o non) è il rapporto sessuale e purtroppo spesso diventa una dipendenza. Dato che la mentalità umana ha da sempre pensato che la donna fosse colei che si occupa dei figli, della pulizia della casa, del pranzo e della cena, penso sia una cosa normale arrivare a fine giornata con l’unico pensiero di mettersi sotto le coperte, chiudere gli occhi e chi si è visto si è visto. Ecco, non capiscono che esistono modi che per quanto semplici possano essere intensi e di certo più importanti di un costante rapporto sessuale, per esempio anche soltanto parole di conforto per cercare di alleviare la stanchezza del proprio partner dopo una giornata stancante.
Simone Pappalardo 5B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania


Francesca e Pia de Tolomei sono due donne accomunate dalle rispettive terribili storie; come sappiamo la prima  fu promessa in sposa a Gianciotto Malatesta e poi uccisa assieme all’amante Paolo per il cosiddetto delitto d’onore, la seconda invece sposata con Nello Pannocchieschi e poi assassinata dal marito per gelosia o scopi politici. Questo fa comprendere come tutt’oggi la situazione non sia cambiata; infatti la Donna è ancora sfruttata come un oggetto, anzi peggio. Ma perché in questi 700 anni non è cambiato nulla? Perché l’hanno permesso, lo permettono e lo permetteranno purtroppo.
Elisa Maci 4B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania


Nel canto V dell'Inferno e del Purgatorio Dante introduce due figure femminili, descritte in modo molto particolare, anche perché sono fra le poche donne presenti in tutta la Divina Commedia. Francesca e Pia sono entrambe accomunate da un tragico destino in vita, l'amore che le ha portate alla morte, ma la loro condizione ultraterrena è ben diversa. Francesca è la protagonista assoluta del canto infernale: l'attenzione di Dante è subito catturata da quest'anima, che procede nella bufera dei lussuriosi ancora abbracciata al suo amato. La breve autopresentazione di Francesca lascia subito spazio al tema centrale del suo racconto: l'amore, “ch'a nullo amato amar perdona”, che è ancora forte in lei, ma che è anche la causa della sua perdizione. La passione è ancora viva in Francesca: come tutte le anime dei dannati, anche lei ha un grosso rimpianto per la vita terrena, poiché non ha nessuna speranza di giungere a Dio. Anche Pia è protagonista del canto V del Purgatorio. La delicatezza di Pia le permette di accennare soltanto alla sua morte, avvenuta per mano del marito, e in lei non c'è alcun rimpianto per la vita terrena, né odio verso il suo uccisore. Francesca e Pia sono le protagoniste di due canti della Commedia, il canto dell'amore e il canto della violenza, apparentemente diversi ma collegati da queste due figure femminili: Francesca, ancora legata al mondo terreno, e Pia, pellegrina che ha la speranza di giungere a Dio. La violenza contro le donne continua fino ad oggi con molti avvenimenti. Violenza non è soltanto fare del male a una donna fisicamente: violenza sono tutte quelle azioni che si compiono contro la volontà di una donna. Violenza è quando si fanno dei complimenti un po’ troppo spinti a una ragazza per strada, quando la si vuole rimorchiare a tutti i costi senza conoscerla, impedendole il passaggio, quando le si fanno delle battute sessiste che la fanno sentire inferiore. Sentiamo dire che le parole hanno un peso e spesso possono ferire più delle azioni: usarle contro una donna in modo inopportuno è un modo per farle del male, o per denigrare il suo valore. Pochi sono gli strumenti che si sono voluti offrire alla donna per difendersi, infatti molto spesso l’omicidio è l’atto finale che viene dopo tante denunce fatte. Inoltre un video che mi ha colpito molto su questo argomento è il seguente:
https://youtu.be/VmQPh0z1gdo
Andrea Di Paola 4B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania


Il 25 Novembre 2019, è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne.  '' La Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne è una ricorrenza istituita dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999.''  È utile, secondo me, analizzare ciò che quelle che sono considerate le ''grandi menti'' del passato pensano su questo argomento.  Senza dubbio mi viene da pensare alla più importante figura storico-letteraria di tutto il 300': Dante Alighieri.  Come ben sappiamo per Dante, uomo dotato di una mente molto aperta, se non futuristica direi per il suo pensiero, il tema della Donna è un tema molto delicato che gli sta molto a cuore.  In numerosi canti della sua straordinaria opera, La Divina Commedia, Dante analizza le esperienze di alcune figure femminili: quella che più mi ha interessato è stata la figura di Pia de' Tolomei.  "ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma".''  (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto V)

Così si presenta Pia de' Tolomei, nobile senese uccisa dal marito, Nello dei Pannocchieschi. Le fonti dell’epoca discordano sulla causa dell’omicidio: forse un’infedeltà della donna, forse il desiderio del marito di avere un'altra moglie. Pia de’ Tolomei non esterna nessuna richiesta, si limita a farsi riconoscere, con dei versi che assomigliano a un epigrafe funebre. A mio parere è interessante vedere come più di 700 anni fa vi fosse qualcuno dotato di un pensiero unico per la sua epoca ma completamente innovativo, riferendosi al tema del femminicidio.

Vincenzo Costa 4B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania




Certamente uno stereotipo femminile esiste e differisce dallo stereotipo maschile, anche in società avanzate come quella in cui viviamo oggi. Gli stereotipi femminile e maschile, sono radicati nella cultura e nel sentire comune, sia tra gli uomini che tra le donne. Ad esempio molti vedono alcune professioni come “più adatte” ad un sesso piuttosto che all’altro. Questi stereotipi sono dimostrabilmente falsi: le prestazioni lavorative quando vengono misurate risultano in genere pressoché indipendenti dal sesso. (https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/30/discriminazionedi-genere-unostereotipo-femminile-esiste-ma-per-la-scienza-siamo-tutti-uguali/4260732/). Consideriamo il gender pay gap. Il gap in questione – quando si parla di occupazione femminile – è il divario retributivo a seconda del sesso di appartenenza ed è un fenomeno molto più diffuso di quel che pensiamo. In parole semplici significa che due persone, a parità di inquadramento e funzione lavorativa, hanno retribuzioni diverse solo perché una è uomo e l’altra è donna. Una discriminazione in busta paga espressamente vietata dalle legge – la parità di retribuzione a parità di lavoro è uno dei principi fondamentali della Ue – ma di fatto ampiamente praticata. (https://www.iodonna.it/attualita/famiglia-e-lavoro/2019/03/07/gender-pay-gapperche-in-italiauna-donna-che-lavora-e-pagata-meno-di-un-uomo/).  Di seguito un video che ci mostrerà che anche i bambini capiscono che il “gender Pay gap” è una cosa sbagliata: http://video.d.repubblica.it/lifestyle/maschi-e-femmine-stesso-lavoro-ma-diversaricompensa-lesperimento-con-i-bambini/6939/7056  
Consideriamo anche il linguaggio: il monologo di Paola Cortellesi disponibile sulla piattaforma “YouTube” ci fa capire quanto anche solo un singolo termine cambi radicalmente di significato se coniugato al femminile (https://youtu.be/4WjhLSkXqTk). Ma non finisce qui perché le parole più sgradevoli e misogine si possono  chiaramente leggere al di sotto di articoli di stupro o violenze sulle donne nei quali, purtroppo, alcuni di questi commenti sono proprio stati scritti da donne (https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09/09/stuprose-compierlo-sono-carabinieri-e-menograve-e-le-donne-se-la-sono-cercata/ 3846282/) e (https://www.globalist.it/news/2017/09/10/studentesse-stuprate-afirenze-se-la-sono-cercata
continua-l-odio-sui-social-2011184.html). Le violenze possono essere inflitte da uno sconosciuto ma anche da persone talmente vicine a noi che neanche potremmo aspettarcelo. (https:// www.bsnews.it/2019/10/24/picchia-moglie-futili-motivi-arrestato-telepredicatore/). Violenze sempre esistite, ora più note, prima nascoste. Da studentessa mi avvicino alle opere del passato più di chiunque altro ed il primo caso di violenza che mi ha sbarrato la strada è stata la tragica storia di Pia de Tolomei. Sarebbe stata la prima sposa di Nello de’ Pannocchieschi. La Tolomei, vittima di un’infelice vita coniugale, sarebbe stata assassinata ad opera del marito che la fece precipitare da una finestra del suo maniero, dopo averla reclusa, probabilmente a causa della scoperta di un’infedeltà da parte di lei, oppure per liberarsene in maniera sbrigativa, desideroso di risposarsi con un’altra damigella. La povera Pia fu poi celebrata dalla Nannini. Non dimentichiamo che fino a pochi anni fa esisteva una legge (prima dell’abrogazione avvenuta nel 1981) a proposito del tradimento: il “delitto d’onore”. Secondo il codice penale italiano, era punito con la reclusione da tre a sette anni chi cagionava la morte del coniuge, nel momento in cui ne scopriva l’illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata al suo onore o a quello della famiglia. Quindi si potrebbe intuire che la legge sarebbe stata uguale per uomini e donne. Tuttavia, oltre ad una casistica quasi esclusivamente maschile, v’è da dire che la discriminazione insita nella fattispecie si desume facilmente da una più attenta lettura: il delitto d’onore, infatti, ricorreva solamente quando l’unione carnale coinvolgeva (oltre al coniuge) la figlia o la sorella, non anche il figlio o il fratello! Ciò significa che il padre che trovava la figlia con l’amante poteva uccidere entrambi e beneficiare del più mite trattamento sanzionatorio del delitto d’onore, mentre non poteva fare lo stesso nel caso in cui avesse sorpreso il figlio!
Isabella Pavone 5B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania





Dante, Paradiso III, 97-120

"Perfetta vita e alto merto inciela donna più sù", mi disse, "a la cui norma nel vostro mondo giù si veste e vela,

perché fino al morir si vegghi e dorma con quello sposo ch’ogne voto accetta che caritate a suo piacer conforma.

Dal mondo, per seguirla, giovinetta fuggi’ mi, e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta.

Uomini poi, a mal più ch’a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi.

E quest’altro splendor che ti si mostra da la mia destra parte e che s’accende di tutto il lume de la spera nostra,

ciò ch’io dico di me, di sé intende; sorella fu, e così le fu tolta di capo l’ombra de le sacre bende.

Ma poi che pur al mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor già mai disciolta.

Quest’è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave generò ’l terzo e l’ultima possanza". 

COMMENTI


Piccarda Donati  era entrata nel monastero delle Clarisse in Firenze sin dalla giovane età, divenendo così sposa di Cristo. Il crudele fratello Corso però, probabilmente nel decennio compreso fra il 1283 ed il 1293, periodo in cui ricoprì varie cariche pubbliche a Bologna, costrinse la sorella ad abbandonare il convento e a sposare il ricco ed influente Rossellino della Tosa, un altro dei più facinorosi rappresentati della fazione dei Guelfi Neri, per stringere così una parentela molto vantaggiosa per gli interessi della famiglia e per la sua personale carriera politica.
Piccarda  racconta un matrimonio forzato, l’inevitabile rottura dei voti, una vita coniugale evidentemente infelice, perché contraria al suo animo e al suo progetto di vita. E allora Dio solo sa che cosa vuol dire, per una che voleva essere “vergine sorella”, sottoporsi al matrimonio con uomo, con il quale condividere il letto e la vita. Ciò che Dante ci racconta è di uno stupro e di una lotta impari contro la prepotenza del mondo maschile. Da quel mondo orribile, di sangue e di sopraffazione, Piccarda ha tentato di fuggire, ma ha perso la sua partita.
“Iddio si sa…”: le parole di Piccarda non possono non richiamare quelle finali di Pia dei Tolomei: “salsi colui…”. Stessa reticenza pudica, stessa allusione a un segreto condiviso con un complice privilegiato. Ma il complice con il quale la Pia condivideva il suo segreto era il marito assassino: lui solo sapeva com’era veramente andata. Il complice di Piccarda, invece, è Dio stesso.
Anastasio Giulia Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania

Leggere Boccaccio in ottica di genere

Proposte di letture e commenti delle e degli studenti (a cura della professoressa Maria Pia Dell’Erba)

Boccaccio e la dedica alle donne nel Decameron




E chi negherá, questo, quantunque egli si sia, non molto piú alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto piú di forza abbian che le palesi, coloro il sanno che l’hanno provato e pruovano: ed oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il piú del tempo nel piccolo circúito delle loro camere racchiuse dimorano, e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgono diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli, mossa da focoso disio, alcuna malinconia sopravviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che, elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degl’innamorati uomini non avviene, sí come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare attorno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare o pescare, cavalcare, giucare e mercatare, de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, o in un modo o in uno altro, o consolazion sopravviene o diventa la noia minore.


COMMENTI
LA CONSAPEVOLEZZA DI BOCCACCIO: Con il Decameron Boccaccio attua una rivoluzione mai vista prima, un nuovo punto di vista o, più probabilmente, una consapevolezza dell’importanza di una figura che fino a lui, e purtroppo anche ai giorni nostri, è sempre stata vittima di un mondo maschilista che spesso, giustificando i propri atteggiamenti come “protezionistici” verso una figura considerata più debole, ha negato ogni tipo di libertà e forma di emancipazione alle donne.
Boccaccio dedica la sua opera proprio a loro che, a dimostrazione della inesattezza della concezione che le vede come figure più deboli, devono superare i dolori senza che la loro mente possa avere altri spazi. Infatti, gli uomini, scrive Boccaccio, possono superare i problemi della vita virando i propri pensieri ad altro, uscendo di casa e socializzando tramite le più varie attività; ma per le donne, costrette in casa dai padri, dai mariti, o da chiunque ritiene di poter scegliere per la vita di qualcun altro, ecco che l’autore offre nuovi spazi di parola e libertà.
La rivoluzione non sta quindi tanto nel narrare di donne ma, piuttosto, sta nel nuovo ruolo che esse assumono: le donne sono personaggi principali e argomento del racconto, la donna non è più la donna-angelo utile alla connessione fra l’uomo e Dio ma è la donna in carne ed ossa, anche lei ricca di passioni, sentimenti e sogni.
Enrico Giordano 4B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania



La novella ottava, della quinta giornata, narra della dispendiosa e disperata passione di Nastagio degli Onesti per la figlia di messer Paolo Traversaro. La giovane non si mostrava sensibile né a Nastagio né alle sue opere di corteggiamento e il poveretto cerca allora di dimenticarla o di
tramutare in odio l'amore per una creatura “tanto dura e cruda e salvatica”. Non riesce nell'una e nell'altra impresa e tutto riprende come prima finché amici e parenti lo convincono ad andarsene dalla “antichissima città di Romagna”. Il recalcitrante innamorato alla fine si lascia convincere e parte con gran pompa “come se in Francia o in Ispagna o in alcun altro luogo lontano andar
volesse, montato a cavallo”. Dopo pochi chilometri – anzi “tre miglia” - l'innamorato si ferma in un luogo chiamato Chiassi. Qui Nastagio si mette a fare la bella vita spendendo e spandendo, ma non più per conquistare la figliola quanto per invitare gli amici a cene e feste. Un venerdì di primavera, “quasi all'entrata di maggio”, mentre i morsi per l'amore negato iniziano di nuovo a tormentarlo, Nastagio vuole restare solo ed entra nella pineta marina. Nella “pigneta” sente il pianto di una donna, corre verso il luogo di dove proviene e vede “una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da' pruni, piagnendo e forte gridando mercé, e oltre a questo le vide a' fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole, spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano”. Appare quindi un cavaliere bruno sopra a un destriero nero che brandisce una spada, e copre la donna d'insulti minacciandola di morte.
Nastagio, non essendo armato, prende un ramo a mo' di bastone e cerca di difenderla ma il cavaliere bruno gli intima di andarsene e gli racconta di chiamarsi Guido degli Anastagi, “troppo più innamorato di costei, che tu ora non se' di quella de' Traversari”. Diversamente da Nastagio, Guido si è suicidato - con lo stesso stocco che ora brandisce – e lei ne è stata “lieta oltre misura”. Non è passato molto tempo che la crudele donna è passata a miglior anzi peggior vita finendo al “ninferno”. I due, insieme ai mastini, sono stati condannati a un supplizio: ogni venerdì, verso le cinque, nella pineta di Chiassi, Guido insegue a cavallo la donna e quando i due mastini la bloccano, le apre il tenero torace e dà il suo cuore crudele in pasto ai cani. La tipologia di femminicidio raccontata da Boccaccio è minoritaria rispetto al classico assassinio della ex fidanzata o moglie, che predomina oggi, tuttavia resta ben presente, anche se non in versione di supplizio infernale (o ninfernale) divino, quanto umano e ben più squallido. LINK DI RIFERIMENTO http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Il_femminicidio_secondo_Boccaccio.html
Mario Marangolo 5B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania



Nel proemio del Decameron, Boccaccio espone gli intenti che lo muovono a comporre la sua opera e indica il pubblico a cui la stessa è dedicata: le donne. In particolar modo, lo scrittore pone una specifica attenzione verso la costrizione a cui le donne sono condannate in ambito familiare da un costume patriarcale che affida un potere tirannico a padri e mariti. La sua intenzione è quella di svelare le virtù e le qualità del genere femminile, che fino a quel momento erano totalmente state sottovalutate. Dunque nel Decameron la donna acquista dignità di personaggio: non è più oggetto dipendente dall'uomo, ma diviene soggetto autonomo che può provare desiderio e non ha timore di esprimere i propri sentimenti.




In una delle novelle del Decameron, che ha come protagonista la figura femminile di Lisabetta da Messina, traspare pienamente la condizione di completa inferiorità della donna medievale.
Lisabetta è totalmente sotto il controllo dei suoi fratelli, che fanno di lei quello che vogliono; infatti uccidono segretamente l'uomo amato dalla sorella, mettendo al primo posto il loro senso dell'onore piuttosto che l'amore verso la sorella e la tenerezza verso la sua triste condizione.
"Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il quale fu da San Gimignano; e avevano una loro sorella chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò questi tre fratelli in un lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva; il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte Lisabetta guatato, avvenne che egli le incominciò stranamente piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, incominciò a porre l’animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno".
"E in tal disposizion dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano, avvenne che, sembianti faccendo d’andare fuori della città a diletto tutti e tre, seco menaron Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se n’accorse. E in Messina tornatisi dieder voce d’averlo per loro bisogne mandato in alcun luogo; il che leggiermente creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno, usati".

"Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse; e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e senza punto rallegrarsi sempre aspettando si stava".

Fin dai primordi, la figura femminile ha sofferto le decisioni di una società prettamente maschilista, sono stati necessari millenni prima che la mentalità comune aprisse gli occhi e nonostante ciò, l'emancipazione femminile sembra ancora essere un'apparenza formale; una continua lotta che dai tempi del Medioevo non è ancora stata superata. Otterremo mai tutti i nostri diritti? Continueremo ad essere giudicate secondo criteri antifemministi? Come vediamo, è necessario che ognuno di noi, nel nostro piccolo, continui a lottare.
Giulia Caruso 4B Liceo Scientifico Galileo Galilei di Catania